I dittatori digitali
{La pandemia ha alimentato la repressione digitale nel mondo}

di Micaela Antozzi {Art Director}

Nell’era COVID-19, la connettività non è una comodità, ma una necessità. Tutte le attività umane sembrano essersi spostate definitivamente online, e questo è un fatto appurato.
Durante questa pandemia, la connettività Internet è diventata un’ancora di salvezza per avere informazioni e servizi essenziali: dalle piattaforme educative, ai portali sanitari, alle opportunità di lavoro, alle interazioni sociali, commercio, istruzione, sanità, politica, socializzazione.

Ma secondo il rapporto del think tank dei ricercatori di Freedom House che hanno valutato recentemente 65 paesi nella loro lotta contro il coronavirus, alcuni governi usando la pandemia da covid-19 come copertura e come pretesto per limitare l’accesso alle informazioni, hanno introdotto strumenti di sorveglianza digitale e raccolta dati che potrebbero rappresentare una minaccia duratura per i diritti sulla libertà di parola e della privacy dei cittadini.

Questo rapporto
copre un periodo da giugno 2019 a maggio 2020, ma alcuni cambiamenti chiave hanno avuto luogo da quando è scoppiata la pandemia da covid-19

Da quando l’epidemia è emersa a Wuhan lo scorso dicembre, la Cina, ad esempio, ha implementato tutti gli strumenti a disposizione nel suo arsenale di controllo: dalla sorveglianza digitale sul web, alla censura automatizzata, fino ad arrivare agli arresti sistematici “per arginare la diffusione del virus” implementando anche “quelli non ufficiali” per informazioni e critiche sul governo.

Ma queste pratiche
non sono esclusive della Cina,
i dettagli del rapporto dicono che altri governi hanno censurato persone in almeno 28 paesi e arrestate in 45 paesi

Le autorità spesso hanno bloccato siti di notizie indipendenti e arrestato individui con false accuse di diffusione di fake news, ma anche divulgando loro stessi informazioni false e fuorvianti con l’obiettivo di soffocare contenuti accurati e informativi, per distrarre il pubblico da risposte politiche inefficaci sulla gestione pandemia e creando “capri espiatori” in alcune comunità etniche e religiose.

Per citarne alcune: Bangladesh e Bielorussia hanno bloccato siti web che contraddicevano fonti ufficiali, revocando le credenziali e arrestando giornalisti che contestavano le loro statistiche sulla pandemia.
In Venezuela, il governo ha bloccato un sito web con informazioni sul Covid-19 creato dall’opposizione, mentre redattori sono stati arrestati e costretti a cancellare i contenuti online sulla diffusione del virus negli ospedali. Thailandia, Filippine e Azerbaigian hanno imposto restrizioni eccessivamente “libere” alla parola e alle opinioni.

Il regime cinese, pioniere in questo campo per il peggior violatore al mondo della libertà su Internet, per il sesto anno consecutivo, ha bloccato a lungo i servizi internet stranieri e le infrastrutture tecniche, per consentire un filtraggio pervasivo di tutto il traffico web in entrata nel paese. Seguendo questo modello, le autorità russe hanno approvato una legislazione per isolare il paese dall’Internet internazionale durante le emergenze e il governo iraniano ha analogamente interrotto le connessioni per nascondere la risposta violenta della polizia alle proteste di massa alla fine del 2019.

I recenti avvenimenti di Hong Kong illustrano in modo spaventoso le implicazioni del “controllo statale” dei cittadini online. Pechino, infatti, ha varato una legge “sulla sicurezza nazionale” prescrivendo dure punizioni per i reati di parola che comprendono qualsiasi espressione di solidarietà con i manifestanti pro democratici.

Sebbene il tracciamento dei contatti svolga un ruolo fondamentale nel contenere il virus, alcuni strumenti di monitoraggio come le app digitali, vengono implementati con poca responsabilità, su come i dati personali potrebbero essere abbinati alle informazioni pubbliche, con effetti pericolosi.

E questo potrebbe rivelarsi un pendio scivoloso, avverte Freedom House:
“La storia ha dimostrato che le tecnologie e le leggi adottate durante una crisi tendono a restare inalterate”, ha affermato Adrian Shahbaz, direttore per la tecnologia e la democrazia e coautore del rapporto. “Come per l’11 settembre, guarderemo indietro al COVID-19 come al momento in cui i governi hanno acquisito nuovi poteri intrusivi per controllare le loro popolazioni”.

Ma questo tipo di pratiche non sono esclusive dei regimi più repressivi del mondo. Anche paesi con uno spettro democratico stanno erigendo i propri confini digitali nel segno di una logora fiducia per un internet aperta.

Vedi ad esempio gli Stati Uniti e India che hanno vietato molte app cinesi, citando preoccupazioni per la sicurezza nazionale. Brasile, Nigeria e Turchia hanno approvato e considerato normative che impongono alle aziende di impedire che i dati degli utenti lascino il proprio paese.

Anche la più alta corte dell’Unione europea ha stabilito che i programmi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti violano i diritti alla privacy degli europei, invalidando uno dei più grandi accordi di condivisione dei dati al mondo.

Queste azioni servono a legittimare la spinta per ogni stato a controllare la propria “Internet nazionale”, anche se mirano a frenare le pratiche repressive, che in precedenza erano sostenute solo da governi autocratici in paesi come Cina , Iran e Russia .